Ciao Massi,
oggi sono passato davanti a quei due gradini di Viale Italia. Alti, larghi, in marmo bianco. Te li ricordi, no?
Venticinque anni fa li evitavo come la peste. E tu lo sapevi bene: ogni volta che uscivamo, ti portavo a zigzagare per le viuzze del centro, pur di non incrociarli. La rabbia, la frustrazione, il vuoto – erano ancora troppo vivi. Per almeno dieci anni mi hanno fatto male. Poi ho smesso di evitarli. Cominciavo a passarci davanti, piano. A volte mi fermavo, li guardavo. A volte mi sedevo lì sopra. Qualche volta mi venivano gli occhi lucidi, altre volte mi scappava un versaccio, un grido soffocato. Prendevo in mano il vecchio Nokia che ancora tenevo in tasca e rileggevo gli ultimi messaggi. Come se potessero dirmi qualcosa che mi era sfuggito.
Poi, il silenzio. Per anni non ci ho più pensato. Ho buttato via tutto: libri, fotografie, foglietti di scuola. Ho cambiato città. Sono stato lontano.
Alcune cose riescono davvero a dormire a lungo. Sembrano svanite. Ma non lo sono.
E quei gradini, Massi… erano il nostro punto fisso. Ci stavo seduto quando Giuggia usciva in ritardo di dieci minuti. Guardavo il traffico di Viale Italia: le auto bloccate, gli autobus impazziti, gli autisti che urlavano e suonavano. Io me la ridevo. A 15 anni col motorino ti sembrava di avere il mondo in tasca. La patente era un miraggio, l’adrenalina una religione. Non potevo immaginare che un giorno sarei diventato anch’io uno di quegli automobilisti incazzati. Succede. Succede quando non sei in pace con te stesso.
Pensavo a mio padrino, lui sì che sapeva stare calmo nel traffico. Se ne fregava. Sembrava si rifugiasse in un altro mondo. Forse erano le cassette dei Nomadi che metteva sempre in macchina, sempre le stesse, con la voce di Augusto che gli faceva da scudo contro tutto.
Poi, d’improvviso, scattava il cancelletto verde. Quello con la ruggine sugli angoli. E io venivo strappato via da tutto: presente, passato, futuro.
Il suono della serratura elettrica era come un richiamo.
Un istante dopo, quella nuvola di profumo mi avvolgeva. Dolce, riconoscibile, irripetibile.
Come si fa a descrivere una cosa del genere, Massi? Come cazzo si fa? Non si può. Tu lo sai. È come quando uscivi con Maria Vittoria e tornavi rimbambito, addomesticato. Era così. Era quella roba lì.
E adesso, questi maledetti gradini. Ancora qui, dopo tutto.
Non si può, Massi. Non passa. Non passerà mai.
Lo so che non è colpa mia. Che la mente fa brutti scherzi. Che certe cose non te le puoi immaginare.
Eppure… se avessi colto un segnale, anche piccolo. Se avessi capito qualcosa, parlato col signor Nicola, fatto una domanda in più…
Ma non c’è niente. Non c’è rimedio. Solo un pensiero che torna, sempre uguale: sono arrivato tardi. E per pochi minuti, l’ho persa per sempre.
A quindici anni, Massi, non dovrebbe succedere.
A quell’età si dovrebbe solo giocare. Studiare un po’. Ridere forte. Piangere per niente. Farsi degli amici. Farsi amare dai propri genitori. Avere il diritto di sentirsi importanti, anche quando si è fragili. Forse è questo il punto, Massi. Forse non si è sentita amata abbastanza.
Tu pensi che il babbo… non lo so.
Tu pensi che il babbo l’amasse davvero?
Perché io, da fuori, non lo vedevo. Non lo capivo. E forse lei non lo sentiva. Forse nessuno gliel’ha fatto sentire, davvero.
E ora mi restano questi gradini. E quel profumo. E questa fottuta domanda che non smette mai di fare male.
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